Attivismo e clima

Ecco un interessante articolo in tema di attivismo climatico

Le dieci cose da sapere sul climate change secondo i ragazzi dei Fridays for future

di Valeria Sforzini 27 luglio 2022 – Pianeta 20/30 CORRIERE DELLA SERA

Dalla responsabilità dei Paesi occidentali, alle tecnologie per contrastare il climate change, fino alle implicazioni sociali del riscaldamento globale: i temi da tenere a mente quando si parla di clima secondo i ragazzi e le ragazze dei Fridays for future riguardano l’ economia, la politica, le questioni di genere. Argomenti che rappresentano lo scheletro sul quale gli attivisti hanno impostato gli incontri del secondo meeting europeo che quest’anno si tiene a Torino dal 25 al 29 luglio. Dopo il primo appuntamento di Losanna nel 2019 e due anni di stop forzato causa Covid, centinaia di giovani da tutta Europa e dal mondo sono arrivati nel capoluogo piemontese per discutere degli obiettivi del movimento e stabilire le azioni future. Per accogliere gli attivisti e per coinvolgere tutti coloro che vogliono prendere parte ai dibattiti, è stato organizzato in parallelo il “Climate Social Camp”, un camping – evento per “far diventare la lotta alla crisi climatica una priorità per tutta la cittadinanza”, con conferenze e dibattiti aperti al pubblico. 

Abbiamo chiesto ai Fridays for future un decalogo dei temi che non si possono ignorare quando si parla di cambiamento climatico.

I Paesi occidentali sono i maggiori responsabili storici della crisi climatica

«I Paesi occidentali storicamente sono i maggiori responsabili della crisi. Nonostante siano quelli con più mezzi e quindi con una maggiore capacità di intervento, non hanno messo in campo misure sufficienti per fronteggiare le conseguenze del climate change». Come scrive il New York Times, 23 Paesi ricchi e sviluppati sono i responsabili di metà di tutte le emissioni storiche globali. I dati sono quelli del Global Carbon project, che evidenziano come Stati Uniti, Canada, Giappone e gran parte dell’Europa occidentale, dove oggi vive il 12 per cento della popolazione globale, siano responsabili del 50 per cento di tutti i gas serra rilasciati da combustibili fossili e industria degli ultimi 170 anni.

 

L’aumento degli eventi estremi è legato al climate change

«L’aumento della frequenza di eventi estremi in molte aree del pianeta è direttamente legato alla crisi climatica, ma attualmente l’aiuto ai Paesi e alle persone più colpite è quasi inesistente», spiegano nel loro decalogo gli attivisti dei Fridays for future. Un’affermazione confermata dall’ultimo rapporto dell’Ipcc, dove si legge che: “Un cambiamento del clima porta a mutamenti nella frequenza, nell’intensità, nell’estensione spaziale, nella durata e nella tempistica degli eventi meteorologici e climatici estremi, e può portare a eventi estremi senza precedenti”. Come si legge nel rapporto, tuttavia, è importante considerare la natura locale dei cambiamenti, che possono essere misurati su base regionale, più che su scala globale. Per questo motivo è nata la World weather attribution initiative, creata da un gruppo di scienziati che analizza in tempo reale gli eventi estremi subito dopo il loro verificarsi per capire che ruolo abbia avuto il cambiamento climatico nel loro verificarsi. Ad esempio, l’ondata di calore registrata in Nord America la scorsa estate ha portato la Wwa a stabilire che: “Sulla base di osservazioni e modelli, il verificarsi di un’ondata di calore con temperature massime giornaliere come quelle osservate nell’area era virtualmente impossibile senza un cambiamento climatico causato dall’uomo. Le temperature osservate sono state così estreme che si collocano ben al di fuori dell’intervallo delle temperature storicamente osservate”.

 

La crisi climatica è una crisi di disuguaglianza

“Le regioni e le popolazioni con maggiori vincoli di sviluppo hanno un’alta vulnerabilità ai rischi climatici”. A dirlo è l’ultimo rapporto dell’Ipcc, che spiega anche come gli hotspot globali più esposti al climate change si trovino in particolare in Africa occidentale, centrale e orientale, Asia meridionale, America centrale e meridionale, piccoli Stati insulari in via di sviluppo e nell’Artico. Il problema diventa più acuto in quei luoghi caratterizzati da povertà, problemi di governance e accesso limitato a servizi e risorse di base, conflitti violenti e mezzi di sussistenza esposti al cima (ad esempio, piccoli agricoltori, pastori, comunità di pescatori). Come si legge nel report dell’ Intergovernmental panel on climate change, “tra il 2010-2020, la mortalità umana dovuta a inondazioni, siccità e tempeste è stata 15 volte superiore nelle regioni altamente vulnerabili, rispetto a quelle con una vulnerabilità molto bassa”. Inoltre, come si legge nel rapporto, a prescindere dalla geografia, la vulnerabilità è esacerbata “dall’iniquità e dall’emarginazione legate al genere, all’etnia, al basso reddito o a combinazioni di questi fattori, soprattutto per molte popolazioni indigene”. In futuro,“la vulnerabilità continuerà a concentrarsi laddove le capacità dei governi locali, comunali e nazionali, delle comunità e del settore privato sono meno in grado di fornire infrastrutture e servizi di base”.

 

I Paesi più ricchi devono accorciare i tempi della riconversione: 2030 non il 2050

Per evitare di superare un aumento di temperatura di 1,5 gradi centigradi, le emissioni globali dovranno raggiungere il picco prima del 2025 e diminuire del 43 per cento prima del 2030, rispetto ai livelli del 2019. A spiegarlo è l’Ipcc nel suo terzo rapporto pubblicato quest’annoTuttavia, come si legge nel report, le emissioni continuano a crescere. Nonostante i modelli predittivi mostrino che sia possibile ridurre le emissioni, la lentezza della transizione e l’impegno politico insufficiente lasciano pensare che servirà più tempo del previsto. Come si legge sull’Economist, per raggiungere gli obiettivi di Parigi “l’uso globale del carbone deve diminuire del 95 per cento entro il 2050, rispetto al 2019. L’uso del petrolio deve diminuire del 60 per cento e il gas del 45 per cento”.

 

Le politiche di genere e di emancipazione sono tra le più importanti azioni di intervento climatico

«Le politiche di genere, di emancipazione e sulla gestione del lavoro di cura sono tra le più importanti azioni di intervento climatiche», dicono i Fridays for future. La conferma in questo caso arriva da UN Women, che sottolinea come il cambiamento climatico sia un “moltiplicatore di minacce”. Questo infatti “aumenta le tensioni sociali, politiche ed economiche in contesti fragili e colpiti da conflitti. Il cambiamento climatico alimenta i conflitti in tutto il mondo e le donne e le ragazze sono più vulnerabili a tutte le forme di violenza di genere, compresa la violenza sessuale legata ai conflitti, la tratta di esseri umani, il matrimonio infantile e altre forme di violenza”. I danni sono legati soprattutto a natalità e salute: “La salute delle donne e delle ragazze è messa a repentaglio dai cambiamenti climatici e dagli eventi estremi”, spiega UN Women, “limitando l’accesso ai servizi e all’assistenza sanitaria e aumentando i rischi legati alla salute materna e infantile. Le ricerche indicano che il caldo estremo aumenta l’incidenza di nati morti e che i cambiamenti climatici aumentano la diffusione di malattie trasmesse da vettori come la malaria, la febbre dengue e il virus Zika, che sono collegate a esiti materni e neonatali peggiori”.

Riduzione dell’orario di lavoro e parità salariale porterebbero benefici anche all’ambiente 

“Decent work and economic growth” è l’obiettivo 8 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Secondo i Fridays For Future questo è uno dei punti fondamentali da tenere a mente quando si parla di climate change: non si può contrastare senza lavoro equo e parità salariale. L’International labour organization (Ilo) lo ha spiegato in un report: “Un lavoro dignitoso per tutti riduce le disuguaglianze e aumenta la resilienza. Le politiche sviluppate attraverso il dialogo sociale aiutano le persone e le comunità a far fronte all’impatto del cambiamento climatico, facilitando al contempo la transizione verso un’economia più sostenibile. E, non da ultimo, la dignità, la speranza e il senso di giustizia sociale che derivano dall’avere un lavoro dignitoso aiutano a costruire e mantenere la pace sociale”.

Viviamo in un mondo a trazione fossile

«Il sistema energetico globale è rotto e ci sta portando sempre più vicino alla catastrofe climatica. I combustibili fossili sono un vicolo cieco, sia dal punto di vista ambientale che economico. L’unico futuro sostenibile è quello delle energie rinnovabili». A dirlo è stato il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres durante la presentazione dell’ultimo rapporto della World metereological organization. E ha aggiunto: «Dobbiamo porre fine all’inquinamento da combustibili fossili e accelerare la transizione verso le energie rinnovabili, prima di incenerire la nostra unica casa».Eppure oggi L’81 per cento dell’energia totale degli Stati Uniti proviene da petrolio, carbone e gas naturale, mentre in Europa, il 34,5 per cento dell’energia totale deriva dal petrolio, il 23,7 per cento dal gas naturale e l’ 11 per cento arriva dal carbone. Le rinnovabili rappresentano il 17,4 per cento del totale.

Le maggiori soluzioni alla crisi climatica sono di carattere sociale 

«Le maggiori soluzioni alla crisi climatica sono di carattere sociale più che tecnico, ma soprattutto riguardano forme di riorganizzazione collettive e comunitarie sia per l’energia, che per i trasporti, che per il lavoro», spiegano gli attivisti. «La crisi climatica inasprisce la crisi sociale, ma le soluzioni di una sono anche le soluzioni dell’altra», commenta Michele Ghidini, referente del gruppo di Brescia. «Un esempio concreto riguarda l’aumento del prezzo dell’energia. Le rinnovabili sarebbero una soluzione a entrambi i problemi, quello economico e quello ambientale. Grazie alla creazione di comunità energetiche tutti potrebbero fornire energia alla collettività in modo più inclusivo e sostenibile».

Le tecnologie vanno selezionate in base alla capacità delle comunità di gestirle

Perchè la transizione ecologica avvenga in modo equo, le nuove soluzioni per la creazione di energia rinnovabile non devono andare a scapito di territori o popolazioni più deboli. «Non possiamo permetterci una nuova forma di colonialismo energetico», aggiunge Ghidini, di Fff. Per approfondire questo tema, all’evento europeo dei Fridays for future è stato organizzato un workshop con la Delegazione Sharawi, Adega (Associazione per la Difesa Ecologica della Galizia) e Ecologia Politica Palermo dal titolo “Green economy e nuovi estrattivismi: pratiche di opposizione alla transizione del capitale”.

Il sovrasfruttamento di territori e gli animali è immotivato 

«Lo sfruttamento oltre la loro capacità produttiva di territori così come delle specie animali è immotivato ed è oggetto urgente di intervento», spiegano gli attivisti. Come si legge nel rapporto dell’International institute for sustainable development (Iisd) , “Separare l’uso delle risorse naturali e lo sfruttamento ambientale dall’attività economica e dal benessere umano è essenziale per favorire la transizione verso un futuro sostenibile”. Per questo, “gli investimenti nell’efficienza delle risorse rappresentano uno degli approcci meno costosi per contribuire al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile e dell’Accordo di Parigi sul clima”. Una delle risposte al sovrasfruttamento quindi passa per efficientamento ed economia circolare: “Entro il 2060, l’efficientamento delle risorse e le misure di consumo e produzione sostenibili potrebbero, a livello globale: ridurre del 25 per cento l’uso delle risorse, ridurre del 90 per cento emissioni di gas serra, aumentare dell’8 per cento attività economica Entro il 2050, l’adozione di metodi di economia circolare per 4 materiali industriali chiave (cemento, acciaio, plastica e alluminio) potrebbe globalmente: ridurre del 40% le emissioni di gas serra. Se si includono i sistemi alimentari, si può ridurre un totale del 49% di emissioni di gas serra.