Virus – Cambiamento climatico

Lo strano titolo di questo post sarà esplicitato dalla lettura dei contributi presentati qui di seguito, due tratti dalle Rassegna stampa del Corriere della Sera del 25/02/20 e del 19/03/20, uno tratto da Internazionale ed un quarto, pubblicato sull’ultimo numero di Utopia21, leggibile qui

Perché il virus terrorizza e il mutamento climatico no

(Sandro Orlando) «Secondo il Climate Index Risk negli ultimi 20 anni i fenomeni meteorologici estremi aggravati dal cambiamento climatico hanno causato 500 mila vittime nel mondo. L’Oms stima che tra il 2030 e il 2050 la crisi del pianeta ne provocherà altre 250 mila ogni anno. Solo in Italia l’inquinamento dell’aria è la causa di circa 80 mila decessi l’anno (Aea). E i ricercatori dell’Ipcc calcolano che entro il 2100 le perdite economiche dovute all’emergenza climatica oscilleranno tra gli 8,1 e i 15 trilioni di dollari. Lo scenario è apocalittico, ma oggi per scongiurare la catastrofe ambientale non c’è stata una reazione altrettanto forte. Perché?», si chiede sulla Stampa Grammenos Mastrojeni. 

Il confronto implicito è con la mobilitazione che è scattata per l’infezione da Coronavirus. Un’epidemia che ha avuto finora un tasso di mortalità del 3,3%, superiore a quello dell’influenza stagionale, ma inferiore al morbillo, con circa 2.600 vittime a livello planetario; eppure ha portato all’isolamento di ben sei regioni. «Per dare una risposta bisogna analizzare le dinamiche con cui avviene la costruzione sociale del rischio» spiega Giovanni Carrosio, sociologo dell’Ambiente presso l’università di Trieste. 

«Per comunicare efficacemente non basta utilizzare dati oggettivi o un approccio razionale, perché la percezione dei rischi è un fenomeno molto complesso che prende forma in base al vissuto e alle credenze delle persone». Questo porta a «sottovalutare o sovrastimare un evento e contemporaneamente innesca reazioni che non sono proporzionate al fenomeno». L’esempio classico è la nostra sensazione nel viaggiare in auto o in aereo. «Razionalmente tutti sappiamo che volare è più sicuro che guidare, ma tutti abbiamo più paura di prendere il volo che di sederci al volante». 

Alla costruzione sociale del rischio concorrono tantissimi fattori, anche molto diversi tra loro. «La scienza e la fiducia che le persone ripongono in essa giocano un ruolo chiave, ma lo stesso fanno elementi simbolici, irrazionali». Proprio parlando di coronavirus abbiamo assistito a episodi di discriminazione nei confronti di cittadini cinesi solo su base razziale, un istinto che risulta più forte di studi scientifici o calcoli probabilistici.

Qualche lezione dalla lotta al virus, per quella contro il cambiamento climatico

(Luca Angelini) Entrambi sono minacce che mettono a rischio tutti i Paesi del globo, entrambi richiedono misure eccezionali, per fronteggiare entrambi bisognerebbe, in primo luogo, dar retta a quel che dicono gli scienziati. Perché, allora, abbiamo molta più paura del nuovo coronavirus che del cambiamento climatico. Ora se lo chiedono anche, in un intervento su Le Monde, François Gemenne, direttore dell’Osservatorio mondiale sulle migrazioni ambientali dell’università di Liegi, e Annaliese Depoux, codirettrice del Centre Virchow-Villermé di sanità pubblica Parigi-Berlino e membro di Lancet Countdown, gruppo di ricerca internazionale su salute e cambiamento climatico. 

La prima risposta, intuitiva, è che «se la minaccia del coronavirus ci inquieta tanto, e più di quella del cambiamento climatico, è senza dubbio perché temiamo di prendere noi stessi il virus. Il virus rappresenta un pericolo concreto, vicino e immediato. Al contrario, abbiamo ancora l’impressione che il cambiamento climatico si produrrà innanzitutto per altri, nel futuro e altrove». 

Nel secondo caso, la percezione è sbagliata, come incendi, inondazioni, siccità e altri disastri si incaricano con sempre maggior frequenza di ricordarci. Ma quella diversità di percezione contiene, per Gemenne e Depoux, qualche lezione per il futuro. A partire da un’autocritica: i modelli climatici di lungo termine e l’insistenza degli scienziati nell’indicare l’Africa subsahariana o l’Asia sud orientale come le aree del mondo più a rischio hanno, involontariamente, contribuito all’errata impressione che il cambiamento climatico fosse «distante» da noi. «Quel che la crisi del coronavirus ci suggerisce è che dovremmo abbandonare gli obiettivi di lungo termine per concentrarci su altri più immediati». 

La seconda lezione, per i due ricercatori, è che «bisognerebbe mettere in maggiore evidenza gli impatti del cambiamento climatico sulla salute pubblica. Numerosi lavori dimostrano che l’argomento della salute pubblica è uno di quelli che risuonano con più forza tra la gente e sono più capaci di indurre cambiamenti di comportamento». 

La lotta contro un virus senza frontiere dovrebbe anche insegnarci che contro le minacce globali serve più solidarietà e più concertazione sovranazionale di quella sin qui dimostrata, con i singoli Stati che hanno agito in ordine sparso. 

Attenzione, però, a non sottovalutare un’importante differenza. Le misure restrittive contro il coronavirus sono state accettate (più o meno scrupolosamente) perché percepite come temporanee. Quelle contro il cambiamento climatico dovrebbero invece essere permanenti o comunque di lungo periodo e perciò, non nascondono Gemenne e Depoux, destinate a suscitare «più dibattito e contestazione». Ciononostante, a loro avviso, «la lotta al cambiamento climatico ha anch’essa bisogno di misure decise dall’alto: se aspettiamo che ciascuno prenda le misure che s’impongono, rischiamo di attendere a lungo». Allo stesso tempo, mentre le restrizioni anti Covid-19 le abbiamo subite, non scelte, «le misure per lottare contro il cambiamento climatico dovrebbero essere scelte. Come passare dal subito allo scelto? Sta tutto lì. Perché le risposte alla crisi del coronavirus sono anche un appello a ritrovare un senso dei beni comuni. E ci mostrano che è possibile prenderemisure radicali e urgenti di fronte a un pericolo imminente».

Ma, visto che non piace l’idea di una «dittatura ecologica» tipo quella prospettata da Hans Jonas in Il principio responsabilità, aggiungiamo che sono anche un appello alle nostre migliori intelligenze a escogitare misure che risultino sostenibili e accettabili sul lungo periodo. Non sarà facile (nemmeno, però, impossibile: pensate anche solo ai benefici ambientali dello smart working e delle video conferenze), ma è la scommessa di ogni possibile futuro. 

Il coronavirus potrebbe non essere una buona notizia per il clima

Gabriele Crescente, giornalista di Internazionale

All’inizio di marzo, quando su internet hanno cominciato a circolare le immagini satellitari che mostravano l’impressionante riduzione delle emissioni di biossido d’azoto provocata dagli effetti del nuovo coronavirus in Cina, molti hanno pensato che questa terribile crisi avrebbe potuto avere almeno un effetto positivo: fermare (o almeno rallentare notevolmente) il cambiamento climatico. 

Le emissioni di gas serra sono direttamente legate alle attività produttive e ai trasporti, ed entrambe le cose sono state fortemente ridotte dalle limitazioni imposte ormai da tutte le principali economie del mondo per fermare la diffusione della pandemia. A febbraio le misure adottate dalla Cina hanno provocato una riduzione del 25 per cento delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo stesso periodo del 2019: duecento milioni di tonnellate in meno, l’equivalente delle emissioni prodotte in un anno dall’Egitto. Tra l’altro, secondo una stima questo ha evitato almeno cinquantamila morti per inquinamento atmosferico, cioè più delle vittime del Covid-19 nello stesso periodo. 

Il rallentamento dell’economia globale potrebbe avere effetti ancora più consistenti. Secondo le ultime previsioni dell’Ocse, nel peggiore degli scenari presi in esame la pandemia potrebbe ridurre la crescita del pil globale nel 2020 dal 3 per cento all’1,5 per cento. Su The Conversation, Glen Peters del Center for International Climate and Environment Research ha calcolato che questo potrebbe comportare una riduzione delle emissioni di anidride carbonica dell’1,2 per cento rispetto al 2019. Visto che dopo la pubblicazione delle stime dell’Ocse le prospettive economiche sono ulteriormente peggiorate, il calo delle emissioni potrebbe essere ancora più marcato. 

Ma se a prima vista questa può sembrare una buona notizia per il clima, le cose appaiono molto diverse se si guarda oltre il breve periodo. Come nota lo stesso Peters, tutte le recenti crisi economiche (gli shock petroliferi degli anni settanta, il crollo del blocco sovietico, la crisi finanziaria asiatica degli anni novanta) sono state accompagnate da riduzioni delle emissioni – anzi, le crisi economiche sono state gli unici momenti nella storia recente dell’umanità in cui la crescita costante delle emissioni si è interrotta. 

Ogni volta, però, il calo è stato di breve durata, e la ripresa economica ha portato con sé un aumento delle emissioni. Nel 2009 la crisi finanziaria ha provocato una riduzione del pil globale dello 0,1 per cento e un calo delle emissioni di anidride carbonica dell’1,2 per cento. Anche in quel caso molti parlarono di una possibile svolta nella crisi climatica. Ma nel 2010 le misure di stimolo economico provocarono un aumento del 5,1 per cento nelle emissioni, molto più rapido che negli anni precedenti la crisi. 

Il motivo è che l’andamento delle emissioni non dipende solo da quello dell’economia globale, ma anche dalla cosiddetta intensità di emissione, cioè la quantità di gas serra emessa per ogni unità di ricchezza prodotta. Normalmente l’intensità di emissione si riduce con il tempo per effetto del progresso tecnologico, dell’efficienza energetica e della diffusione di fonti di energia meno inquinanti. Ma durante i periodi di crisi questa riduzione può rallentare o interrompersi. I governi hanno meno risorse da investire nei progetti virtuosi e le misure di stimolo tendono a favorire la ripresa delle attività produttive tradizionali. Se come molti temono la Cina dovesse rilanciare la costruzione di centrali a carbone e altre infrastrutture inquinanti nel tentativo di far ripartire l’economia, a medio termine gli effetti negativi potrebbero cancellare qualunque miglioramento dovuto al calo delle emissioni. 

Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia, ha avvertito che la crisi economica prodotta dalla pandemia potrebbe avere conseguenze disastrose per la transizione energetica globale. Il 70 per cento degli investimenti mondiali in energia pulita dipende dalle finanze pubbliche. Per questo, avverte Birol, è essenziale che le misure di stimolo diano la precedenza all’economia verde. Inoltre i governi potrebbero approfittare del crollo del prezzo del petrolio per ridurre i sussidi pubblici agli idrocarburi senza provocare grosse reazioni, e investire quelle risorse nella sanità. 

Il ruolo dell’Europa
Recentemente la Commissione europea ha presentato il suo piano per un green deal europeo e la proposta di legge sul clima che prevede l’impegno ad azzerare le emissioni nette entro il 2050. Questi progetti non dovrebbero essere accantonati con il pretesto della crisi economica, come probabilmente chiederanno alcuni stati membri, ma essere messi al centro della politica di investimenti pubblici straordinari che ormai tutti gli economisti giudicano necessaria. 

Inoltre l’Europa avrà la responsabilità di mantenere in piedi i negoziati internazionali sulla riduzione delle emissioni nonostante il caos. La pandemia ha già provocato la cancellazione di alcuni incontri preliminari alla conferenza delle Nazioni Unite sul clima che dovrebbe svolgersi a Glasgow a novembre, e non è escluso che la conferenza stessa possa essere rinviata. In ogni caso, la lotta al cambiamento climatico scenderà parecchio nella percezione delle priorità globali, e servirà un impegno diplomatico ancora più deciso per evitare un fallimento. 

Sotto questo aspetto, però, la pandemia potrebbe davvero offrire un’opportunità imprevista. Fino a poche settimane fa era opinione diffusa che solo un rallentamento dell’economia statunitense avrebbe potuto impedire la rielezione di Donald Trump alle presidenziali di novembre. Ora quel rallentamento è praticamente certo. Se questo dovesse contribuire a portare alla Casa Bianca un presidente deciso ad annullare l’uscita dagli accordi di Parigi e a riprendere il ruolo di primo piano avuto da Barack Obama nei negoziati internazionali, la crisi del nuovo coronavirus potrebbe avere almeno un effetto duraturo sull’emergenza climatica.