18/04/20

Economist

Il crollo della domanda, il mix virus-clima, le nostre abitudini che cambiano: cosa dovrebbe fare l’industria del petrolio

(Gianluca Mercuri) 

Quanto a lungo il petrolio resterà «il sangue che scorre nelle vene dell’economia mondiale»? La domanda che si pone l’Economist è una di quelle che definiranno le nostre vite nei prossimi anni e decenni: lo choc da virus si è innestato sulla questione climatica, e il «sangue» scorre in modo sempre meno fluido. La domanda di oro nero non è mai precipitata in modo così veloce e ad arrestare il crollo non è certo bastato l’accordo del 12 aprile, quando l’Opec (l’organizzazione dei principali produttori) e la Russia hanno deciso di ridurre la produzione di 9,7 milioni di barili al giorno da maggio a fine giugno: un patto benedetto da Donald Trump, «la cui rielezione dipende dagli Stati produttori di shale oil, Texas, Pennsylvania e Ohio», fortemente colpiti dal dumping sui prezzi del greggio voluto da Putin.

L’accordo ha basi fragili perché la domanda continua a diminuire e non si sa quando possa riprendersi, mentre le scorte si accumulano. È poi sempre in dubbio la fedeltà alle intese con l’Opec della Russia ma anche dell’America, visto che i produttori texani non si fanno frenare facilmente, nei loro slanci produttivi, dalle quote decise da Washington. I sauditi, da parte loro, continuano a offrire maxi sconti ai clienti asiatici. Aggiungeteci i guai endemici di Paesi come Venezuela, Iran, Nigeria e Angola e il quadro geo-energetico globale risulta quanto mai instabile.

Ma la vera questione di fondo che pesa sui destini dell’industria petrolifera, e dunque delle economie di tutto il pianeta — sottolinea il settimanale inglese — è legata alla ristrutturazione avviata dalla crisi climatica e che pare accelerata da quella pandemica: «Centinaia di milioni di persone stanno sperimentando il lavoro da casa, meno voli e meno inquinamento urbano. Il che potrebbe contribuire a cambiare l’orientamento pubblico sull’opportunità di abbandonare più rapidamente un’economia fondata sui combustibili fossili». Per questo i produttori di petrolio farebbero bene a considerare lo sconvolgimento del Covid-19 «per quello che è: non un’aberrazione, ma il segnale di ciò che succederà». E dunque, aggiungiamo noi, dovrebbero sposare davvero, e in fretta, i piani di «rivoluzione verde» — come quelli annunciati per esempio dall’En— e riconvertirsi in modo sempre più serio, credibile e massiccio alle fonti di energia alternative.