17/04/20

Foreign Affairs

C’è un peccato originale che condanna gli accordi sul clima (parola di premio Nobel)

Luca Angelini – da La rassegna Stampa del Corriere della Sera Digital Edition del 17/04/20

 «Se una squadra sportiva perde 25 partite di fila, è tempo di un nuovo allenatore. Allo stesso modo, dopo una lunga serie di falliti vertici sul clima, il vecchio disegno per gli accordi climatici dovrebbe essere stracciato in favore di uno che ne ripari gli errori». Così scrive, su Foreign Affairs, William Nordhaus, premio Nobel 2018 per l’Economia. Le 25 partire a cui si riferisce sono le 25 Conferenze sul clima (dalla Cop1 di Berlino del 1995 alla Cop25 di Madrid, lo scorso dicembre) che non sono riuscite a cambiare il punto cruciale: «Non c’è un accordo internazionale vincolante sul cambiamento climatico». 

l’aggettivo decisivo è proprio «vincolante». Tutti gli accordi finora firmati hanno come base la volontarietà. E non ci sono punizioni per chi non rispetta gli impegni. Una situazione che, spiega Nordhaus citando la teoria dei giochi, favorisce il free-riding, la tentazione di farsi un giro gratis a spese degli altri. Tradotto: se gli altri Paesi si fanno carico del costo di ridurre le emissioni di gas serra, anche il mio Paese, pur non prendendo o rispettando alcun impegno, beneficerà di un pianeta più pulito e sicuro.

La ricetta di Nordhaus? Cambiare l’architettura degli accordi climatici, in particolare la struttura degli incentivi: «Quel che io chiamerei il “Club del clima”. Le nazioni possono superare la sindrome del free-riding negli accordi internazionali sul clima se adottano il modello del club e prevedono punizioni per le nazioni che non ne fanno parte. Altrimenti lo sforzo globale per frenare il cambiamenti climatico fallirà di sicuro».

Come dovrebbe funzionare il Club del clima? Primo: la regola fondamentale per farne parte è impegnarsi a ridurre i gas serra per contenere entro una certa misura (ad esempio, +2°C) l’aumento medio della temperatura del pianeta. E qui Nordhaus suggerisce di non negoziare sui limiti massimi nazionali di emissioni (perché ogni Paese cercherebbe di fissarne uno alto per sé e basso per gli altri), ma piuttosto di contrattare un prezzo internazionale del carbonio (ad esempio, 50 dollari per tonnellata di biossido di carbonio), che aumenti di una percentuale prefissata di anno in anno, in modo da rendere sempre meno convenienti le produzioni «sporche» e più vantaggiose quelle pulite. Una volta fissato il prezzo del carbonio, i singoli Paesi potranno decidere se adottare per sé una carbon tax (che tassa il contenuto di emissioni delle merci) o un sistema «cap and trade» (che consente uno scambio del costo delle emissioni fra industrie e settori «sporchi» e «puliti», sempre a vantaggio di questi ultimi).

La regola decisiva del club, per Nordhaus, è però la seconda: chi non ne fa parte verrà penalizzato. Come? Il suo suggerimento è una tariffa universale, poniamo del 5%, su tutte le merci importate nei Paesi del club da Paesi che non ne fanno parte. Indipendentemente dal «contenuto di carbonio» delle diverse merci, perché l’obiettivo, in questo caso, non è ridurre quel contenuto, ma fornire un potente incentivo economico a chi è fuori dal club a entrare a farne parte (impegnandosi a rispettarne la prima regola). 

Nordhaus sottolinea che studi e modelli dimostrano che gli accordi «con penalità» sono più efficaci di quelli senza. Ci resta, però, un dubbio: che succederebbe se i due principali inquinatori globali, Cina e Stati Uniti, decidessero di restare fuori dal club e di imporre tariffe ritorsive uguali e contrarie a chi ne fa parte (ad esempio l’Unione europea)? Una guerra dei dazi a spese del pianeta e di chi lo abita?