Foreign Affairs
Gli «ambientalisti improbabili» e danarosi che (forse) salveranno il pianeta
Luca Angelini – da La rassegna Stampa del Corriere della Sera Digital Edition
«Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse». Rebecca Henderson non lo cita, ma viene in mente la celebre frase di Adam Smith leggendo l’articolo che la docente di Harvard autrice di Reimagining Capitalism in a World on Fire ha pubblicato nel numero di maggio-giugno della rivista Foreign Affairs. Perché gli «ambientalisti improbabili» ai quali si riferisce il titolo sono i nuovi «Masters of the Universe», per dirla con Tom Wolfe: i gestori dei grandi fondi di investimento. Che, come il macellaio, il birraio e il fornaio di Adam Smith, non sono guidati dalla benevolenza, ma dalla cura del proprio interesse (anzi, sperabilmente, quello dei loro clienti).
Henderson ricorda la dichiarazione, del gennaio scorso, di Larry Fink, ceo di BlackRock, il più grande fondo d’investimento mondiale (circa 7 mila miliardi di dollari gestiti), secondo cui «il rischio climatico è un rischio d’investimento». Motivo per cui BlackRock avrebbe preso in considerazione la bocciatura delle aziende che non fanno abbastanza per ridurre quel rischio. Solo ambientalismo di facciata? Secondo Henderson no. Fondi come BlackRock (i 100 più grandi controllano attorno ai 19 mila miliardi di dollari circa un terzo del capitale globale investito) «sono oggi così grandi da venire talvolta definiti “proprietari universali” o “investitori universali” in quanto, in effetti, controllano l’intero mercato. Per questo motivo non possono diversificare per evitare il rischio del cambiamento climatico». Per dirla con un’espressione cara agli ambientalisti, non hanno un Pianeta B in cui investire.
Detto in modo più esplicito: «Questa tendenza non è guidata dall’altruismo o da un profondo impegno per l’ambiente: è una funzione degli interessi economici. Per i più grandi possessori di asset mondiali il cambiamento climatico non è un’esternalità, è una profonda minaccia ai loro ritorni sul lungo termine. Sarebbe, dopotutto, molto più difficile fare soldi in un mondo in cui la maggior parte dei porti finisce sott’acqua, i raccolti vanno persi di continuo e centinaia di milioni di persone migrano».
Per questo motivo sono nati, fra i grandi investitori, gruppi di pressione come Climate Action 100+ per spingere le aziende a «decarbonizzare» le loro produzioni e i loro servizi. Se a questa pressione «dall’alto» si accompagna quella dal basso di consumatori sempre più attenti alle credenziali «verdi» dei marchi che acquistano, la tentazione, sempre ricorrente, del «greenwashing», la verniciatura ambientalista di comodo, avrà, secondo Henderson, sempre meno successo.
Questo significa, per dirla ancora con Adam Smith, che anche la salvezza del pianeta va lasciata alla «mano invisibile» del mercato? No. I governi hanno un compito essenziale: quello di fissare le regole da rispettare. A quel punto (com’è successo quando Donald Trump ha fatto retromarcia sugli Accordi di Parigi sul clima), saranno le stesse aziende che si sono adeguate ad avere interesse che non si torni indietro e che i concorrenti non facciano i furbi, aggirando le norme. Di più: «In un giorno non lontano, inondare di denaro la politica di denaro per difendere l’uso dei combustibili fossili potrebbe essere visto come un rischio reputazionale inaccettabile o persino moralmente indifendibile».
Può darsi che Henderson pecchi di ottimismo e abbia invece ragione chi pensa che il capitalismo sia incompatibile con un pianeta dalle risorse finite. In quel caso, però, resterebbe il non trascurabile problema di costruire un sistema economico alternativo che, stante l’impossibilità di contare sulla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio, assicuri comunque il nostro pranzo (oltre che il loro).