Green Deal, auto elettrica, disastri ambientali:meglio il freno o l’acceleratore?

Una serie di riflessioni condivisibili prese da la:
RASSEGNA ECONOMICA – CORRIERE DELLA SERA – 09/24
di LUCA ANGELINI


«La decarbonizzazione inseguita anche al prezzo della deindustrializzazione è una débâcle» (Emanuele Orsini, presidente di Confindustria)


«Sono d’accordo con Orsini, lo ringrazio per essere stato molto chiaro su questo, sui risultati disastrosi frutto di un approccio ideologico del Green Deal europeo» (Giorgia Meloni, presidente del Consiglio)


«Il bilancio delle intemperie provocate dalla tempesta Boris in Europa Centrale è salito ad almeno 24 vittime» (Agenzia France Presse)


«Quello che ritenevamo impossibile diventa non solo possibile, ma relativamente frequente. Come addetti ai lavori siamo increduli e storditi da eventi che sono sempre più fuoriscala» (Federico Grazzini, climatologo dell’Agenzia regionale per l’ambiente dell’Emilia Romagna)


Questi flash delle ultime ore danno bene l’idea del dilemma. Da un lato i timori degli industriali — condivisi dall’attuale governo e probabilmente anche da Ursula von der Leyen in versione bis (qui un approfondimento di Simone Disegni su Open) — su una marcia troppo accelerata verso la decarbonizzazione dell’economia e la transizione ecologica. Dall’altra l’accelerazione dei disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici (questione ovviamente ben più rilevante delle polemiche sulle responsabilità reali o presunte della Regione Emilia Romagna). È un dilemma ben presente anche nel Rapporto sulla competitività europea di Mario Draghi (qui una sintesi, pubblicata da Le Grand Continent): 


«Se gli ambiziosi obiettivi climatici dell’Europa saranno accompagnati da un piano coerente per conseguirli, la decarbonizzazione sarà per l’Europa un’opportunità. Ma se non riusciamo a coordinare le nostre

politiche, c’è il rischio che la decarbonizzazione finisca per andare in senso opposto rispetto a competitività e a crescita. (…) La decarbonizzazione deve avvenire, per il bene del nostro pianeta. Ma affinché diventi anche una fonte di crescita per l’Europa, avremo bisogno di un piano congiunto che comprenda le industrie che producono energia e quelle che consentono la decarbonizzazione, come le tecnologie pulite e l’industria automobilistica». 


Quest’ultima è forse quella in cui timori, sfide e contraddizioni sono più eclatanti. Da un lato, sempre notizia di queste ore, gli europei hanno smesso di comprare auto elettriche. Come ha scritto Giuliana Ferraino sul Corriere, i dati dell’Associazione europea dei costruttori di automobili (Acea) sono impietosi: «Ad agosto le immatricolazioni di auto elettriche alimentate a batteria (BEV) sono scese del 43,9% a 92.627 unità rispetto alle 165.204 dello stesso periodo dell’anno precedente, mentre la quota di mercato totale è scesa al 14,4% dal 21% dell’anno precedente. Ciò rappresenta il quarto mese consecutivo con il segno meno quest’anno, in netto contrasto con gli aumenti quasi costanti registrati nel 2023. Alla base della forte discesa il crollo nei due mercati più importanti per le auto BEV: Germania (-68,8%) e Francia (-33,1%). Da gennaio ad agosto sono state immatricolate 902.011 nuove auto elettriche a batteria, che rappresentano il 12,6% del mercato. Ad agosto forte calo anche per le immatricolazioni di auto ibride plug-in (-22,3%)». Non stupisce che Luca De Meo, numero uno di Renault e presidente di Acea, chieda alla Commissione europea un rinvio delle regole per diminuire le emissioni di Co2, che scatterebbero già dal prossimo gennaio per le nuove immatricolazioni. Il rischio per le case automobilistiche è di affrontare multe miliardarie o di tagliare ulteriormente la produzione per non pagarle. «Se l’elettrico rimane al livello attuale — ha spiegato De Meo — l’industria europea dovrà probabilmente pagare 15 miliardi di euro di multe o rinunciare a produrre più di 2,5 milioni di vetture e veicoli commerciali. Perché di fatto, se non si vende un’elettrica, non se ne possono produrre quattro a combustione», essendo i limiti calcolati sulle emissioni medie dei veicoli venduti. 


Contro De Meo si è però scagliato il ceo di Stellantis, Carlos Tavares,

che in un’intervista alla France Presse ha detto, in sostanza ormai si è in ballo e bisogna ballare: «Dal punto di vista della concorrenza tanto cara all’Unione Europea, sarebbe surreale cambiare le regole adesso. Tutti conoscono le regole da molto tempo, tutti hanno avuto il tempo di prepararsi e quindi ora si corre». Non che Tavares risparmi critiche all’Ue (che peraltro ora sembra aprire a «neutralità tecnologica» ed e-fuels): «Il dogmatismo dei legislatori europei si è infranto contro il muro della realtà: siamo in un sistema in cui il regolatore vuole che i consumatori comprino queste auto, e il consumatore dice “no, grazie, non a quel prezzo”. Ora, però, le auto le abbiamo, ci siamo organizzati per le relative vendite necessarie, stiamo col fiato di Tesla sul collo e ci viene detto che ci saranno dei disastri. Dovevamo pensarci prima, giusto?».


Per Acea, il quadro è più complesso. Ad azzoppare il business dell’auto a batteria è l’assenza delle «condizioni cruciali per l’adozione su larga scala di automobili e furgoni a emissioni zero: infrastrutture di ricarica e di rifornimento di idrogeno, un contesto produttivo competitivo, energia verde a prezzi accessibili, incentivi fiscali e all’acquisto e un approvvigionamento sicuro di materie prime, idrogeno e batterie».


Il che rende evidente che schiacciare soltanto sul pedale del freno, e non anche su quello dell’acceleratore, darebbe soltanto un’illusione di sicurezza, come ha spiegato il vicedirettore del Corriere Daniele Manca: «Si potrà e si deve criticare l’Europa se si pensa che abbia posto la questione del riscaldamento globale in maniera ideologica e burocratica. Ma dietro il velo di queste critiche pensare che il tema non fosse reale potrebbe aver indotto molti a credere che si potesse agire solo sui tempi. Quello che l’Europa indicava era invece una sfida innanzitutto basata sull’innovazione. (…) Dazi, allungamento delle scadenze, sono provvedimenti eccezionali. Servono a guadagnare tempo: purché a monte venga accettata la sfida tecnologica e dell’innovazione appunto. (…) Le due transizioni ecologiche e digitali hanno fatto comprendere come la competizione sull’innovazione si vinca ormai in una logica sistemica. E quindi oltre ad agevolazioni alla transizione e al tempo serviva e serve, per esempio, puntare a una migliore strutturazione del mercato elettrico,

delle infrastrutture di settore. Partecipare cioè alla difesa non solo dell’esistente ma anche alla costruzione del futuro».


In fondo, è lo stesso avvertimento di Draghi: «Dovremmo abbandonare l’illusione che solo procrastinare possa preservare il consenso. Anzi, la procrastinazione non ha prodotto altro che una crescita più lenta, e di certo non ha generato più consenso. Siamo arrivati al punto in cui, se non agiamo, saremo costretti a compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà».


C’è anche chi, come Simone Tagliapietra, Cecilia Trasi e Giovanni Sgaravatti del centro studi Bruegel, auspica un’estensione del Green Deal europeo a livello globale: «Il rischio incombente di una guerra commerciale verde tra Stati Uniti, Cina ed Europa rappresenta attualmente una minaccia significativa per la decarbonizzazione globale. Quindi, per mitigare questo rischio e promuovere un ambiente favorevole al commercio sostenibile, l’Ue dovrebbe sostenere accordi multilaterali su sussidi e tariffe verdi. Questi accordi garantirebbero che le politiche commerciali si allineino agli obiettivi ambientali, prevenendo al tempo stesso l’emergere di misure protezionistiche che minano gli sforzi di decarbonizzazione globale. La collaborazione con i principali partner – in particolare gli Stati Uniti e la Cina – sarà cruciale in questo sforzo, e l’Europa dovrebbe impegnarsi in un dialogo costruttivo, esplorando opzioni di cooperazione attraverso i meccanismi esistenti e gli accordi multinazionali. Inoltre, l’Ue deve resistere alla tentazione di politiche protezionistiche ripiegate su se stesse».


Se c’è un esempio da non seguire, è quello della Germania. Almeno a quel che ha scritto Wolfgang Munchau: «Ho appena terminato la stesura di un libro, intitolato Kaput, che uscirà con Swift Press a novembre, nel quale ripercorro la storia del declino economico del mio Paese. È su questo argomento che vorrei attirare l’attenzione di Merz (fresco candidato cancelliere per la Cdu, ndr), anziché sugli immigrati. La Germania ha scommesso tutto su una decina di industrie che si sono avviate contemporaneamente sul viale del tramonto, e la peggiore è l’industria automobilistica.

Tutti i governi, uno dopo l’altro, hanno trascurato di investire nelle tecnologie digitali e nel giro di qualche decennio la Germania è precipitata dal piedistallo, che la vedeva Paese leader dell’alta tecnologia, per ridursi a un luddista digitale».


Ed è noto che, pur di fare l’interesse — o presunto tale — della propria industria, la Germania ha spesso ballato da sola rispetto all’Europa, ad esempio sul gas russo e i rapporti commerciali con la Cina. L’economista Pietro Reichlin, sulla Stampa, sostiene però che proprio l’appoccio «nazionale» è quello che non serve: «Il tema che, a mio avviso, dovrebbe essere al centro dell’attenzione è l’aumento della produttività e la riduzione dei costi nei settori tecnologici avanzati, che sono spesso complementari alla transizione energetica e ambientale che chiedono i cittadini europei. (…) Le politiche nazionali che disperdono risorse in una moltitudine di piccoli incentivi (finanziamenti e sgravi fiscali) servono a poco. Come detto nel rapporto Draghi, l’enfasi dovrebbe essere posta sul coordinamento a livello continentale delle politiche industriali, cioè uniformare il sistema di governance e di regole, puntare sui settori in cui abbiamo vantaggi comparati, uscire dai settori dove è più conveniente importare dall’estero. Non sono scelte facili, soprattutto perché richiedono un’analisi accurata dei settori da valorizzare, e anche la disponibilità dei governi nazionali a cedere sovranità a istituzioni centrali e a resistere ai gruppi d’interesse di cui si compone la base elettorale dei partiti di governo e di opposizione. Avrà la Meloni il coraggio di sostenere queste politiche? Saprà riconoscere che la sovranità europea è funzionale alla sovranità nazionale?». 


Anche per i sostenitori del Green Deal c’è, comunque, di che riflettere. Le ultime elezioni europee hanno visto un netto ridimensionamento dei Verdi. E Kahina Rabahi, responsabile delle relazioni istituzionali presso la European Anti-Poverty Network (Eapn), aveva spiegato ad Avvenire: «A queste elezioni, i Verdi sono stati percepiti come un partito non vicino ai problemi della gente comune. Il modo in cui hanno portato avanti la lotta al cambiamento climatico sembra quasi aver ampliato il divario tra classi e il meccanismo per la transizione giusta (basato su principi compensativi) è stato concepito in modo complesso e collaterale

come meccanismo correttivo». Qualche esempio? «I costi di adeguamento energetico delle abitazioni presupponendo che tutti abbiano delle somme in banca per poter anticipare i costi dei lavori di casa e poi ottenere rimborsi. Dimenticando che ci sono persone che non hanno i soldi neanche per curarsi. E poi anche la mobilità sostenibile non è certo alla portata delle classi sociali disagiate». A giudizio di Rabahi, al Green Deal, che pure ritiene necessario, manca un serio meccanismo di redistribuzione (tassando maggiormente chi inquina) a supporto per le famiglie a basso reddito. 


Emanuele Bompan, direttore di Materia Rinnovabile ed esperto di giornalismo ambientale, aggiungeva che, oltre a incorporare «una forte componente sociale» nella loro agenda politica, gli ecologisti dovrebbero anche cambiare linguaggio: «La transizione ecologica va spiegata e strutturata in ottica di stabilità economica, sicurezza nazionale, benessere dei cittadini e deve essere strutturata per ridurre il più possibile gli impatti sociali. Nella protezione della biodiversità vicino ai fiumi, ad esempio, il messaggio da veicolare alla cittadinanza è che si vogliono proteggere le case dalle esondazioni, ridurre i premi assicurativi, sostenere nuove occupazioni legate alla rigenerazione naturale e non solo aiutare i castori o altre specie protette». 


Ed eccoci tornati alle drammatiche istantanee di queste ore.