07/05/20

07/05/20 – Aeon – We are nature
Tra Gaia e Spinoza: un’etica per salvarci salvando il pianeta
Luca Angelini – da La rassegna Stampa del Corriere della Sera Digital Edition 
Il centenario James Lovelock, padre dell’ipotesi Gaia, secondo cui la Terra va considerata come una sorta di organismo vivente, nel suo ultimo libro, Novacene, (potete rileggere l’intervista pubblicata qualche settimana fa nel numero 432 della Lettura, il supplemento culturale del Corriere; se posso aggiungere una nota personale, anche a me era capitato di intervistarlo, parecchi anni fa, per la rivista Slowfood, e ancora ne ricordo il lucido radicalismo condito da una straordinaria affabilità) ha scritto: «Dovremmo abbandonare l’idea politicamente e psicologicamente caricata che l’Antropocene (ossia l’epoca in cui l’azione dell’uomo diventa decisiva per i destini del pianeta, ndr) sia un grande crimine contro la natura. (…) L’Antropocene è una conseguenza della vita sulla Terra; (…) un’espressione della natura».

La filosofa Beth Lord, docente all’università scozzese di Aderdeen, argomenta, su Aeon, che si tratta di una posizione molto vicina a quella di un filosofo seicentesco che ha studiato a fondo: Baruch Spinoza. «La Gaia di Lovelock – scrive Lord – è un nome alternativo per quello che Spinoza, nella sua Etica, chiama “Dio, o la natura”». In altri termini, «Lovelock segue Spinoza nel credere che le nostre azioni siano espressione della natura, anche quando sembrano distruggere la natura. E segue Spinoza anche nel ritenere che dovremmo rallegrarci di ciò che l’Antropocene (che Lovelock fa partire dal 1712, anno in cui Thomas Newcomen inventò la pompa a vapore per estrarre carbone, ndr; potete leggerne una bella ricostruzione in Coal. A Human History di Barbara Freese) ha reso possibile: un enorme aumento dell’attività e della conoscenza umana».

Ciò significa, si chiede Lord, che bisogna assolvere l’umanità da «400 anni di decimazione dell’ambiente naturale e dall’aver causato un cambiamento climatico antropogenico?». Ovviamente no. Non possiamo gioire della distruzione dell’Amazzonia, dell’inquinamento degli oceani, dello sterminio di insetti, animali e piante o dei danni dell’uso dei combustibili fossili. Nemmeno se ciò ha contribuito a migliorare enormemente le condizioni di vita, ad esempio, di milioni di cinesi e indiani. «L’Antropocene produce in noi sentimenti di tristezza, nostalgia, colpa, rabbia e risentimento. Tanto più forti perché capiamo che la crisi climatica è antropogenica: crediamo di averla causata attraverso una serie di scelte e che avremmo potuto scegliere in modo diverso». Più di tutto, proviamo paura per il futuro nostro e dei nostri figli. E «paura per il nostro stesso potere».

Spinoza, prosegue Lord, ci insegna che, quando proviamo paura, cerchiamo di distruggerne la causa. Ma, in questo caso, la paura del nostro potere rischia di condurci a «una diminuzione del nostro desiderio di esistere». Mentre il fondamento spinoziano della virtù è «il desiderio di preservare il nostro essere e la conoscenza di ciò che è buono per la nostra auto-preservazione». Va dunque evitato il rischio che la vittima del nostro senso di colpa sia la nostra capacità di conoscenza. E il considerarci «parte della» e non «contro la» natura può attenuare il senso di colpa e spronarci a usare quella capacità a vantaggio nostro e del pianeta. Perché «noi comprendiamo, in un modo che a Spinoza era precluso, che la prosperità delle calotte glaciali, degli alberi e delle farfalle ha un diretto impatto sulla nostra prosperità. Spinoza capiva che tutte le cose sono parti interconnesse della natura, ma in termini metafisici, non in termini di sistemi ecologici», come noi abbiamo iniziato a fare con libri come Primavera silenziosa (1962) di Rachel Carson. 

Per trasferire tutto ciò in azione politica serve però, secondo Lord, un passo ulteriore: leggi che prescrivano azioni per il benessere degli organismi non umani della Terra essenziali, ormai l’abbiamo capito, al nostro proprio benessere. E qui chiama in aiuto il sociologo francese Bruno Latour e il concetto di «Stato terrestre» che ha illustrato in Essere di questa terra, basato su una sorta di nuovo contratto sociale che comprenda tutti gli organismi viventi. Lord spiega che non sono tanto importanti i dettagli di possibile funzionamento di un tale Stato, ma la sua utilità in quanto narrazione. Se, come diceva Spinoza, il contratto sociale «è una storia mirata a legare le persone fra di loro come cittadini», lo «Stato terrestre è, in modo analogo, una fiction utile a tenerci uniti, non solo come umani che cercano la prosperità umana, ma come “terrestri” che cercano la prosperità della vita in quanto tale». 

«Capire che siamo parte della natura – conclude Lord – è capire meglio il nostro ruolo causale nei cambiamenti che accadono sulla Terra. Capiamo che le nostre azioni nell’estrarre carbone, petrolio e gas erano buone in passato ma cattive oggi, non perché siamo immorali, ma perché sono cattive per la nostra prosperità». Può suonare egoistico (se non comprendiamo di essere, come umanità, «parte» della natura), ma solo agendo per il nostro vero vantaggio possiamo smettere, per Lord, di temere il nostro stesso potere e iniziare «ad affermare il nostro potere perché è parte del potere della natura. E la natura ha il potere di lottare per ciò che è buono per la vita nel suo complesso».